Emmanuel - The broken diary - Fourth Season

1.5. Un giorno capirai (...cosa?)

June 28, 2023 Antonia Del Monaco Season 1 Episode 5
1.5. Un giorno capirai (...cosa?)
Emmanuel - The broken diary - Fourth Season
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Emmanuel - The broken diary - Fourth Season
1.5. Un giorno capirai (...cosa?)
Jun 28, 2023 Season 1 Episode 5
Antonia Del Monaco

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Attraverso gli occhi di Antonia (Elisa Gandolfi) assistiamo al primo momento di vera crisi di Emmanuel (Paolo Malgioglio), coincidente con la morte di Kurt Cobain. Emmanuel cerca conforto nella filosofia platonica e parla con Antonia di musica e di cartoni animati.

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5. One day you will understand 
Through the eyes of Antonia (Elisa Gandolfi) we witness the first moment of real crisis of Emmanuel (Paolo Malgioglio), coinciding with the death of Kurt Cobain. Emmanuel seeks solace in Platonic philosophy and talks to Antonia about music and cartoons.

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Attraverso gli occhi di Antonia (Elisa Gandolfi) assistiamo al primo momento di vera crisi di Emmanuel (Paolo Malgioglio), coincidente con la morte di Kurt Cobain. Emmanuel cerca conforto nella filosofia platonica e parla con Antonia di musica e di cartoni animati.

... 

5. One day you will understand 
Through the eyes of Antonia (Elisa Gandolfi) we witness the first moment of real crisis of Emmanuel (Paolo Malgioglio), coinciding with the death of Kurt Cobain. Emmanuel seeks solace in Platonic philosophy and talks to Antonia about music and cartoons.

Una tozza farfalla nera con le ali punteggiate di rosso si posa sui capelli di Emmanuel: lui la raccoglie sull'indice e la osserva.

- È ferita, non credo che ce la farà. Peccato: aveva solo pochi giorni da vivere.

La lancia in aria e la guarda allontanarsi con un goffo volo zigzagante.

- Le farfalle volano male, ma è pur sempre meglio che restare a terra.

Rinuncia a chiedere il mio parere in proposito; negli ultimi tempi fa sempre così: procede per affermazioni apodittiche di cui non gl'interessa avere conferma o smentita. È come se parlasse a se stesso.

La morte di Kurt Cobain, vero e proprio shock generazionale, col suo assurdo seguito di suicidi imitativi, lo ha sconvolto. Era il suo musicista preferito, un mito per lui. Non ascolta più la sua musica, non comunica con nessuno e ha cadute di umore verticali; faccio il possibile per distrarlo e confortarlo, ma non è facile. Sembra cresciuto di colpo di dieci anni e ha perduto il suo naturale buonumore: è come se un macigno gli pesasse sul petto.

Sono seduta su un tronco d’albero abbattuto dal vento, in posizione dominante. Emmanuel rovescia la testa all’indietro e la appoggia sul legno rugoso, accanto alle mie ginocchia; la sua espressione è visibilmente sofferente. So di doverlo richiamare ai suoi doveri, ma lo faccio con discrezione, cercando di infondere dolcezza nel mio tono di voce.

- Sei distratto oggi: non puoi permettertelo, domani sei interrogato di latino. Coraggio, mettiamoci al lavoro.

Gli apro il libro e glielo appoggio delicatamente in grembo. 

- Comincia dalla lettura metrica.

- Ho già letto in metrica. Distici elegiaci, non ricordi?

- Davvero?

- Chi sarebbe quello distratto?

- Hai ragione, scusami. 

- Non vorrai che lo rifaccia, mi fa schifo il distico elegiaco.

- Perché, c'è qualche altro verso che ti piace?

- Forse quello del carme 8.

- Il coliambo, detto anche trimetro giambico scazonte. Hai ragione, è un bellissimo verso. Ora passa alla traduzione.

- Ti amai, allora, non come la gente volgare ama un'amante, ma come un padre ama i figli e i generi. Adesso so chi sei: perciò, anche se brucio di un fuoco più violento, tu sei per me molto più vile e spregevole. Com'è possibile, dici?

- È giusto, ma sai dirmi perché qui si traduce "come"?

Nessuna risposta.

- Mi ascolti?

No, Emmanuel non mi ascolta. Seduto nell'erba a gambe incrociate con il libro appoggiato sulle ginocchia, chiude il volume, mi volta le spalle, strappa un filo d'erba e si mette a masticarlo pensosamente.

- Hai fame?

- Non è che mangio erba perché ho fame: non sono mica una capra. Però forse un po' di fame ce l'ho.

Sorrido fra me: per quanto depresso, è pur sempre un ragazzo di sedici anni, con i normali appetiti di un adolescente.

- Ho messo dei panini nel cestino, ne vuoi uno?

- Cosa c'è dentro?

- Prosciutto.

- Allora no, grazie. 

- C'è anche insalata e pomodoro.

- Quello sì, grazie.

Gli porgo il panino. Incomincia a sbocconcellarlo con più appetito di quanto voglia ammettere.

- Sai, - dice masticando con la bocca piena - penso che diventerò vegetariano come Pitagora. È un grande Pitagora. A parte quella storia delle fave, che non ho mai capito.

- Nemmeno io, a dire il vero.

- Quindi è inutile che ti chieda di spiegarmela.

- Sì, è inutile.

Finisce il panino, beve un sorso di Coca-Cola e si asciuga le labbra con la manica della camicia a quadri. Poi raccoglie un sasso di fiume, di un bianco trasparente con venature rossastre, e lo guarda in controluce.

- Anche le cose più normali possono essere bellissime: basta saperle osservare.

- Sì, per essere un sasso è molto carino. Assomiglia un po' a un opale.

- Non ti capita mai di sentire che manca qualcosa?

- Che intendi?

- A me capita specialmente dopo la pioggia, quando sento l'odore del fieno appena tagliato: mi dà un senso di vertigine, una specie di tuffo all'indietro. È una sensazione indescrivibile, come se in quell'attimo fosse racchiuso il senso della vita. A te non capita?

- Si chiama déjà vu.

- Ti ho chiesto se ti capita, non come si chiama.

- Sì, mi capita.

- E che rimedio c'è?

- Non c'è rimedio: basta non pensarci più e mettersi a fare altro.

Scuote la testa.

- Non pensare ai problemi non è un rimedio, è solo un modo per dimenticarli per un po'. Ma tanto poi ritornano.

- Ma pensarci è ancora peggio: restano sempre con te e ti avvelenano la vita.

- Ieri la prof di filosofia ha detto che il déjà vu è collegato con l'amore platonico: una delle poche cose interessanti che ho sentito a scuola. Peccato che non abbia spiegato il perché. 

- Non è facile da spiegare.

- D'accordo, ma almeno provarci... Invece l'ha buttata lì e poi s'è messa a parlare d'altro. Comunque mi sa che il problema è a monte.

- In che senso?

- Nel senso che non ho proprio capito cos’è l'amore platonico. Una mia compagna, quando la prof l'ha interrogata, ha risposto che è l'amore senza sesso, ma lei le ha quasi riso in faccia e le ha messo sei meno. Be', io avrei detto la stessa cosa.

- Infatti non è la risposta corretta.

- Spiegamelo tu, allora, visto che lo sai.

- È un po' complicato, non è come spiegare regole di grammatica.

- Grazie, fin lì ci arrivavo da solo. Quindi mi stai dicendo che fuori del tuo settore non sai nulla?

- No, non sto affatto dicendo questo. Ti sto solo dicendo che non è il mio mestiere e che non mi sono mai occupata specificamente di filosofia. Io sono una specialista di filologia classica e nel mio settore so esattamente quello che dico. Non mi piacciono le invasioni di campo: mi mette a disagio parlare in modo approssimativo di argomenti che conosco solo per averli studiati al liceo. 

- Prima hai detto che la risposta non era corretta: quindi vedi che lo sai. Ti sto solo chiedendo di spiegarmi il perché. Provaci, per favore. Provaci con parole tue, adatte a un povero scimunito come me.

- Tu non sei scimunito.

- Sul serio, voglio capire dove sbaglio.

Si siede a gambe incrociate e mi guarda. Per quanto io sappia di dover approfittare di quel raro momento di disponibilità all'ascolto, mi rendo conto che trovare le parole giuste è maledettamente difficile; insegnare è un’arte complessa e un soggetto come Emmanuel metterebbe a dura prova chiunque: è quel tipo di ragazzo che, se sbagli modalità comunicativa, distrugge tutto con l'ironia. Tento goffamente di buttarla sullo scherzo:

- E sia: ma dovrei parlare a capo coperto, come Socrate nel Fedro.

- Conosco il Fedro: lo abbiamo appena letto in classe. Evidentemente però non l’ho capito, visto che ti sto chiedendo di spiegarmelo. 

Mi schiarisco la voce ed inizio a parlare.

- Partiamo da un concetto di base: secondo Platone l'anima preesiste al corpo e in origine si aggirava nel mondo iperuranio, dove non c'è materia, ma solo forma.

- Sì, questo lo so: le Idee.

- Ora, l'anima umana è formata da tre componenti.

- Quelle della biga alata?

- Sì, bravo: il cavallo nero, la parte egoista e materialista; il cavallo bianco, la parte divina, che tende all'ideale; e l'auriga, la parte razionale, che ha il compito di tenere in equilibrio i due cavalli.

- So anche questo. E so anche che il cavallo bianco ha il naso aquilino. Buffo, no? Quello nero ha il naso schiacciato e posso capirlo, perché è un bestione assemblato a casaccio, ma perché quello bianco ha il naso aquilino?

- Non saprei: probabilmente il naso aquilino era considerato segno di distinzione. 

- Che idea balorda. Va’ avanti.

- A un certo punto il cavallo nero ha preso il sopravvento, si è tuffato verso il basso e ha trascinato tutta la biga nella materia. 

- Altrimenti non saremmo qui a parlarci in questo momento.

- Esattamente. In quel momento siamo nati, o per meglio dire ci siamo incarnati. Ma il contatto con la materia, per Platone, provoca l’oblio di tutto quello che riguarda l'anima: tabula rasa. 

- Quindi noi crediamo di essere dei corpi, giusto?

- Sì, ci siamo dimenticati di ciò che eravamo. In realtà in tutta la materia è impressa una qualche forma, solo che non la riconosciamo. Ed è qui che entra in scena l'amore.

- Ecco, è proprio questo che voglio capire: che tipo di amore?

- L'amore passionale, quello che manda fuori di testa. Quello che Platone chiama eros, contrapponendolo alla philìa.

- Allora anche fisico, per forza: ecco perché la prof ha riso in faccia alla mia compagna.

- No, non necessariamente. 

- Vedi? Continuo a non capirci niente.

- Hai sedici anni, non è facile alla tua età scindere il sesso dalla passione: però sono due cose diverse.

- Può darsi, non lo so ancora. Resta il fatto che l'innamoramento ci fa venire il desiderio immediato di fare sesso con una persona.

- Perché c'è un equivoco di fondo, Emmanuel. 

- Quale equivoco?

- L'innamoramento per Platone è questo: quando vediamo un corpo che ci ricorda l'idea del bello, all'improvviso riconosciamo la bellezza, che avevamo già visto nell'iperuranio; sentiamo un colpo al cuore, un senso di malessere, un desiderio confuso di possesso. Però non sappiamo cosa riconosciamo. Confondiamo la forma con la materia che la ospita, ed è per questo che vogliamo fare sesso, come se possedendo un corpo potessimo possedere la bellezza. Ma non è così, perché in realtà stiamo cercando altro e non sappiamo cosa. Insomma, stiamo male, ma non sappiamo perché.

- Quel passo me lo ricordo, mi ha colpito molto: è quello dove Platone dice che sentiamo un prurito come i bambini quando mettono i denti e che il prurito sono le ali dell'anima che spuntano.

- Esatto: è questo che avvia il processo di anàmnesi o reminiscenza. Riconosciamo l'idea che abbiamo già visto, ma siccome la riconosciamo in modo confuso, ci sentiamo storditi e irrequieti. 

Annuisce solennemente:

- Sì, è proprio così. 

Se fossi meno concentrata nel tentativo di spiegare con parole semplici un concetto complesso, questa sua uscita mi stupirebbe non poco: come può un ragazzo così giovane, per di più schivo e solitario, avere già alle spalle un'esperienza del genere? Questo pensiero mi turba e mi deconcentra. Mi affretto a concludere:

- Ed ecco spiegato l'effetto déjà vu: siccome riconosciamo in qualcuno la bellezza, ci sembra di avere già conosciuto quella persona in un'altra vita o chissà dove. E infatti, per Platone, è proprio così.

Rimane un attimo a riflettere in silenzio. Poi replica:

- Può essere. Però, se uno ama in quel modo, l'attrazione fisica è inevitabile.

- Infatti è proprio a questo punto che iniziano i guai. Socrate nel Simposio dice che, se non abbiamo una guida spirituale, siamo destinati ad un sicuro fallimento e sprecheremo un'occasione unica.

- Cioè?

- Cioè, appunto, tenderemo semplicemente a fare sesso con la persona che amiamo e basta. Una cosa del genere non serve a niente e non ci porta nella direzione giusta. 

- Ovvio, perché ci riporta di nuovo verso la materia.

- Esattamente. 

- Quindi, in sostanza, innamorarsi è una fregatura. È come stare su una scala: bisogna salire, ma è molto più facile scendere. Comunque credo di aver capito: se le cose stanno così, è chiaro che il sesso è da evitare.

- In realtà non proprio: Platone non dice che sia da evitare, non è mica moralista; però il sesso ci distrae dalla ricerca e rallenta la risalita, per cui col tempo bisogna imparare a farne a meno. Ecco perché amore platonico per la gente significa amore casto.

- Allora vedi? Quella poveraccia della mia compagna aveva ragione.

- In effetti non aveva tutti i torti, ma doveva spiegare perché Platone arriva a questa conclusione: altrimenti è come leggere le frasi nei cioccolatini, non è una risposta da un liceo classico.

- In sostanza bisogna volersi bene come fratello e sorella? Niente amori passionali?

- Assolutamente no: questa è la philìa, tutt’altra cosa. L'eros è un'esperienza insostituibile, essenziale nella vita di un uomo.

Si agita un po', irritato.

- Eh ma vedi? Ogni volta che credo di avere afferrato il concetto, salta fuori che non ci ho capito un cazzo. 

- Te l’ho detto che non è facile da spiegare.

- Sì vabbè, ma mettici più impegno, prof. Quindi, ricapitolando, uno si deve innamorare come un imbecille, andare fuori di testa, ma cercare di non fare sesso con la persona che ama?

- Sì, più o meno.

- Ma è una tortura! Cioè, che senso ha? E poi perché volersi semplicemente bene non basta?

- Perché il voler bene, secondo Platone, non innesca il processo di reminiscenza, e questo ci costringerà a rotolare "per novemila anni intorno e sotto terra".

- Dice proprio così? 

- Sì.

Resta interdetto per qualche secondo. Poi riprende:

- Ma perché proprio novemila anni?

- Forse perché il ciclo di reincarnazione dura circa diecimila anni, a meno che uno non sia filosofo: in tal caso dura solo tremila anni.

- Per i filosofi c’è uno sconto?

- Sì, perché i filosofi amano la verità. Amore è filosofo, ricordi?

- In ogni caso i conti non tornano: anche calcolando la vita media di un uomo sugli ottant'anni, che sono tanti, a occhio e croce avanzano novecentoventi anni, anno più anno meno. 

Resto stupita da questa sua osservazione: non ci avevo mai pensato. Insiste:

- E poi scusa, che vuol dire “intorno e sotto”? Cioè, sotto basta e avanza: perché anche intorno?

- Francamente non lo so.

- Non so se ho capito, ma questo è davvero interessante.

- Sì, tanto più che nessun altro filosofo antico la pensa così. Ora basta, dai: per oggi ho maltrattato abbastanza Platone.

- Ti perdonerà. In ogni caso io ho capito quello che mi serviva di capire.

- Cioè?

Si volta con un sorriso enigmatico, lasciando cadere la domanda. 

Una folata tiepida si leva dal fiume, portando con sé un sentore stagnante di acquitrino.

- Hanno di nuovo buttato nell'acqua dei sacchetti di plastica. Lo stanno ammazzando, questo fiume. Ma non dovrebbe essere obbligatorio il riciclaggio dei rifiuti?

- Dovrebbe.

- Buttare via le cose è da idioti, e anche il riciclaggio non è che sia poi tanto intelligente: mi dici che senso ha buttare via le bottiglie di vetro per poi spaccarle, triturarle e rifare delle bottiglie di vetro? Non possiamo tenercele come sono, che ne so, e lavarle bene prima di riutilizzarle?

- Infatti ai tempi di mio padre era così.

- Quindi col passare del tempo siamo diventati sempre più cretini? È bello saperlo. Comunque ricordiamoci di raccogliere quei cazzo di sacchetti prima di andare via. Si sono arenati sotto quella pianta.

- Quale?

- Quella laggiù, la vedi?

- La vedo: è un nespolo.

- Sei una specie di enciclopedia ambulante: sai tutto, tranne le cose importanti.

- Quelle non le sa nessuno, ragazzino.

- Ma io ti voglio bene lo stesso, anche se sei una professoressa ignorante. 

Mi sorride prima che io possa risentirmi:

- Scherzo, dai.

Tace a lungo. Poi mi chiede a bruciapelo:

- Pensi anche tu che io sia un perdente?

- In che senso, scusa?

- Oggi nell'acquario c'era un pesce con una strana muffa bianca addosso; sono andato a comprare un disinfettante in farmacia e quando sono tornato a casa l'ho trovato mezzo divorato dagli altri pesci. Ma era ancora vivo, non sapevo cosa fare. Teresa mi ha detto che era da vigliacchi lasciarlo soffrire; così l'abbiamo tolto dall'acqua e l'abbiamo ucciso con una goccia di formalina. Ci sto male ancora adesso.

- Purtroppo in natura i soggetti sani eliminano per istinto quelli malati o anormali.

- Cosa ne sanno i pesci che uno di loro è malato?

- È diverso, si comporta stranamente. Anche le galline fanno così.

- Allora lo vedi, sono un perdente.

- Ma che c'entra, mica sei una gallina tu.

- Teresa è saggia. I miei mi dicono sempre che le dò troppa confidenza.

- Anche quello dei tuoi è un comportamento naturale.

- Sai una cosa, prof? Avere a che fare con un’ex prima della classe è oggettivamente palloso, ma ha i suoi vantaggi: si può parlare un po' di tutto.

- È un complimento o una critica?

- Un complimento. E poi sto anche scoprendo delle cose.

- Platone?

- Non solo: anche Catullo. Quei versi mi hanno fatto una strana impressione.

- Che impressione?

- Come se fossero stati scritti apposta per me.

- Ma tu non assomigli per niente a Catullo, per fortuna.

- Dici? Un'impressione così forte non può essere casuale.

- Lo escludo. Catullo era stato tradito dalla donna che amava, quando ha scritto quelle parole soffriva come un cane: cosa vuoi saperne tu?

Mi accorgo di avere commesso una tremenda gaffe: mi guarda con un’espressione torva:

- Scusa, potresti evitare di farmi pesare così la mia inesperienza?

La pezza che ci metto è peggio del buco:

- Non voleva essere una critica, non è niente di personale. È tipico degli adolescenti assorbire tutto come delle spugne; crescendo diventerai più impermeabile. Un giorno ripenserai a questi momenti e ti sembrerà tutto lontanissimo e molto buffo.

Non risponde.

- A cosa stai pensando?

- Al cumulo di cazzate che hai detto. Ma proprio tante, eh. Se non sbaglio si chiama retorica.

- Non essere arrogante.

- E tu allora? Con tutta la tua pseudocultura, sei sensibile come una suola di scarpa.

- E pensare che non ho mai creduto all'astrologia.

- Cazzo c’entra l’astrologia? 

- Facciamo finta di crederci.

- Facciamo finta: e allora?

- Nato sotto il segno dei Pesci.

- No dai, Venditti no.

- Non sto citando Venditti: tutti i sacri testi dell’astrologia dicono che i nativi dei Pesci sono lunatici e ipersensibili, pensano che tutto quel che succede sia fatto apposta per ferire loro.

- E con ciò?

- Con ciò, non ti ha mai sfiorato il sospetto di essere un po’ egocentrico?

Scuote la testa con un'espressione di profonda nausea.

- Non ti facevo così superficiale.

- Ecco un altro cliché tipico del tuo segno: la profondità. Sei una collezione di luoghi comuni, ragazzino.

- A proposito di luoghi comuni, sono anche un po’ masochista: perciò continua pure, adoro essere insultato.

- Scusa, in che senso sarei superficiale?

- In tutti i sensi. Manchi completamente di intuito: quando non riesci a inquadrare razionalmente una cosa dici che non esiste. Il tuo fottuto auriga se ne sta lì seduto a sproloquiare, bla-bla-bla, il nome scientifico del nespolo, la formula chimica della muffa, il diametro delle rane, l'impermeabilizzazione delle spugne, il momento angolare delle ruote, quante orecchie ha mediamente un cavallo, quale velocità deve tenere il cavallo nero per non ribaltarsi in curva, dopo quanti déjà vu il cavallo bianco deve prenotare lo psichiatra, e intanto quell'idiota di un auriga frusta i cavalli e non si accorge che sono morti, sono tutte e due stecchite quelle povere bestie, e lui non va da nessuna cazzo di parte.

- C'è un cazzo di troppo nell'ultima frase.

- Ma vaffanculo.

- Un vero imbecille, il mio auriga.

- Puoi dirlo.

- E di cosa sarebbero morti, i miei cavalli?

- Di noia, professoressa: si sono suicidati per non sentire più i tuoi discorsi. 

- Be' ragazzo, mi dispiace dirtelo, ma la razionalità non è il tuo forte. Il tuo discorso puzza di Medioevo lontano un miglio: tu sei Pesci fino al midollo, figlio della luna.

- Tu non sei troppo diversa da me, professoressa, solo che non te ne sei ancora accorta.

- Ecco, ci mancava la profezia.

Incrociamo simultaneamente le braccia e per circa dieci minuti ci teniamo il muso a vicenda, rimanendo seduti a guardare il paesaggio. Sto per proporgli a malincuore di rientrare, quando lui rompe il silenzio:

- Facciamo pace?

Provo un grande sollievo.

- D'accordo, facciamo pace.

Si volta verso di me e riprende il discorso come se niente fosse successo.

- Tornando alla musica, te l’ho mai detto che quella italiana la trovo insopportabile? Salvo un paio di eccezioni, tipo De André e Battisti. Musicalmente Battisti ha molto da dire. Mi piaceva Rino Gaetano, è assurdo che sia morto così presto. Mi piace anche Paolo Conte, nel suo genere. Poi forse Battiato, non so: non ho ancora capito se sia un musicista serio o un bluff.

- Un musicista serio, direi.

- Fino ai gesuiti euclidei lo seguo, posso sopportare anche vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori, ma quando aggiunge della dinastia dei Ming ho la netta sensazione che mi stia prendendo per il culo. Però è una bella canzone, a modo suo geniale.

- Sì, condivido.

- In generale comunque trovo che l’italiano si presti poco alla musica, ha sempre qualcosa di troppo.

- Sarà perché sei mezzo olandese.

- A me non piacciono gli olandesi, non li sopporto proprio come popolo.

- Addirittura? Perché?

- Troppo lungo da spiegare, un giorno capirai. 

- Capirò cosa?

- Non mi sento nemmeno troppo italiano, se è per questo. Mio fratello sì, ma lui è diverso, ha anche un aspetto mediterraneo.

- È vero: siete molto diversi.

- La musica, per quello che mi riguarda, parla inglese.

- Nemmeno io amo gran che la musica italiana.

- Preferisco le vecchie canzonette anni Sessanta, almeno non se la tiravano; quelli che sono venuti dopo sono degli insopportabili intellettuali, come il tuo auriga. Oppure la buttano sul sentimental-patetico, che è anche peggio.

Si mette a cantare con espressione ironicamente ispirata.

- Ed unità per noooi...

- Hai una bella voce, sei intonato.

- La laurea honoris causa in vaghezza spetta a De Gregori: e qualcosa rimane fra le pagine chiare e le pagine scure, e cancello il tuo nome dalla mia facciata e confondo i miei alibi e le tue ragioni eccetera eccetera.

- Però suona bene.

- È il tuo auriga a pensarlo. Ma sono tutti così, salvo eccezioni.

- Che eccezioni?

- Già l’acqua inghiotte il sole, gli zingari felici, la sedia di lillà... Cose così. 

- Quale sedia di lillà?

- Vabbè professoressa, ma informati. E poi ci sono le classiche ciambelle col buco, che non sai come gli siano riuscite.

Si rimette a cantare quasi sottovoce.

- Un fiore in bocca può servire, non ci giurerei... Scommetto che quando dice sorellina ti buca lo stomaco, vero prof?

Lo blocco.

- Basta così, ho capito il concetto e per certi versi lo condivido.

Sorride scuotendo la testa.

- "Per certi versi".

Mi fissa all’improvviso con lo sguardo fermo e serio di un adulto, che contrasta singolarmente con il blu intenso dei suoi occhi. 

- Antonia.

Non mi ha mai chiamata per nome. Sobbalzo per lo stupore.

- Sì?

- Mi sento male.

- Lo so, sei molto scosso per quel che è successo. Ti capisco, sai? È una cosa terribile. Devi lasciare che il tempo curi le tue ferite: ora non possiamo fare di più, a parte cercare di distrarci.

- No, ma non è solo questo.

- Che altro c'è?

- C'è che io non voglio rotolare sotto terra per novemila anni.

Non riesco ad improvvisare nessuna risposta a questo eccentrico ace da mancino che piomba imprevedibile sul rovescio dell’avversario destrimane, tanto più che non smette di guardarmi. Mi sento braccata, come inseguita da due fari blu nella notte. Cerco istintivamente nella borsetta un paio di occhiali scuri.

- Non c'è il sole - commenta, senza distogliere lo sguardo.

- Mi danno fastidio i raggi che filtrano tra gli alberi: mi arrivano proprio negli occhi. Il sole è basso, sta quasi tramontando.

- Già.

- Noi due parliamo troppo. - gli dico severa - Intanto le ore passano e non ci accorgiamo che è tardi. 

- Sì, è tardi, e ci dimentichiamo perfino di mangiare. Finiremo per trasformarci in cicale.

- Cos'è, la giornata del Fedro?

Non risponde. Finalmente abbassa lo sguardo, si volta ed accende lo stereo. Mi meraviglia che voglia ascoltare musica in un momento come questo, ma appena sento le prime note di quel brano riconosco le corde che fanno vibrare la sua anima: un giro di chitarre distorte melodicamente grezzo, ma nello stesso tempo anomalo e imprevedibile, una voce dal timbro caldo e sensualmente adolescenziale. Ne resto affascinata. Non so chi sia e non oso chiederglielo, ma inconsciamente penso che gli assomigli.

- Una volta o l'altra devo farti ascoltare la musica come si deve - dice soprappensiero.

- Cioè?

- Cioè non con uno stereo portatile a pile, evidentemente. Ci vuole un impianto serio, come quello che ho in camera mia, e possibilmente un disco in vinile: lo preferisco di gran lunga al cd.

Si alza in piedi, appoggia la schiena a un albero con il ginocchio sinistro flesso e il piede contro il tronco e si mette a lanciare sassi nel fiume.

- Dicevamo dell'inesperienza. - riprende con tono indifferente - A te invece l’esperienza non manca, suppongo.

- Sono una donna, non una ragazzina.

- Come ci si sente ad avere quel tipo di esperienza?

- Niente di speciale; è un’abitudine come un’altra.

- Addirittura un’abitudine?

- Massì, dicevo per dire.

- Allora ne hai molta, di esperienza.

- Non essere indiscreto.

Scaglia un sasso con violenza: lo vedo cadere al di là del torrente.

- Non sono indiscreto, sono geloso.

- Geloso?

- Faccio le veci di mio fratello. Allora? Quanta?

- Né troppa né troppo poca. Non ero una ragazza precoce.

- Quanti anni avevi?

- Quanti anni avevo quando?

- Lo sai benissimo.

Lo interrompo seccamente, con tono severo.

- Senti, non sono affari tuoi. Adesso basta, non ti permetto di perdere altro tempo. Vieni qua e apri il libro: per punizione farai tutta l’analisi da solo. Hai dieci minuti esatti di tempo per finirla.

Si volta a guardarmi:

- Per punizione di che?

- Della tua insolenza.

- Non avevo nessuna intenzione di essere insolente. - mi dice con mite stupore - Okay, scusa.

Torna a sedersi e apre il libro, concentrandosi sul testo. Mentre tenta di destreggiarsi con l’analisi sfoglio nervosamente il suo quaderno per controllare i compiti; mi colpisce un brano vergato di sbieco con una calligrafia contorta, che non assomiglia affatto a una traduzione:

 

Sono le due di notte e non riesco a dormire. Non posso più ascoltare quella musica: mi devasta, vado in pezzi. Il silenzio è spaventoso, spaventoso il senso di solitudine. L'impressione è che tutto giri alla rovescia; peggio: che tutto giri per il verso giusto mentre io vado alla rovescia. Vorrei essere uno zingaro, vorrei vivere fluttuando, vorrei lasciare aperte tutte le porte, nessuna esclusa. Ho paura di scegliere, di perdere scegliendo la disponibilità totale verso la vita. Non permetterò a nessun ideale di rendermi cieco, a nessun dogma di paralizzarmi.

Il marasma è completo dentro di me e il sogno di bellezza si fa sempre più intenso e necessario, come la spinta del sangue nel mio corpo. Quando sento gli altri parlare d'amore le corde del mio animo penzolano morte: non m'importa niente di amare in quel modo. Eppure il bisogno dell'amore in me è fortissimo, mi proietta fuori di me a cercar di annullare la solitudine che è la fonte di ogni sofferenza. Ma fuori c'è la vita, e la vita, quella vera, ha un sapore orrendo oppure è godimento puro, senza vie di mezzo. La vita è un'amante sadica. Waste me, rape me my friend, do it and do it again, fa male ma mi piace, e mi piace solo così. 

Ma ho paura, non sono pronto a morire. Ho bisogno di lei. È sua questa insonnia, l'insonnia di tutte le mie notti: penso a lei finché il sonno mi coglie e il dolore se ne va, la paura scompare, resta solo il suo abbraccio cullante e una sensazione di benessere così intenso che non riesco più a controllare le mie reazioni, il mio corpo trabocca di piacere e poi sparisco in un sogno. E forse è questa la morte, un'amante più dolce.

 

Chiudo di scatto il quaderno e riapro i miei appunti di greco, mentre tutte le saracinesche del mio essere scendono ad impedire che quella cosa mi entri dentro.

Dimetro anapestico ipercatalettico, non ci sono dubbi.

Non è più un bambino, dopo tutto.

E questo cos'è? Un ferecrateo?

Emmanuel è innamorato e non me n'ero accorta: come ho potuto non capirlo?

Sto perdendo colpi: è un gliconeo. Un tempo l'avrei riconosciuto al primo sguardo. 

Mi pare impossibile immaginarlo alla prese con quelle sue notti tormentate guardandolo adesso, tutto concentrato sul libro di latino, con le sopracciglia corrugate nello sforzo di sbrogliare la matassa sintattica. A me sembra così infantile, così lontano da quelle torbide fantasie; una vampa di rossore mi sale alle guance al solo pensiero di ciò che pure è ben naturale per un ragazzo di sedici anni.

Sono in ritardo su tutto, la docente sarà delusa di me. Devo sbrigarmi.

Chi può essere lei? Forse una sua compagna? Ma come ha potuto un'ochetta qualsiasi conquistarsi tanto spazio nella sua anima schiva e introversa? Lui non è come tutti gli altri, non può amare in modo così banale.

Lo osservo con una strana timidezza mentre si gira e si rigira cercando inutilmente una posizione comoda nell’erba. Se ne sta andando. Mi sento ferita, espropriata di un bene non mio: una sensazione dolorosa e inutile, che rimuovo immediatamente.

- Comunque i perdenti sono più simpatici. 

Non lo rimprovero per avere interrotto l'analisi: risentire la sua voce che esprime un pensiero così semplice e spontaneo mi dà una gioia indescrivibile: lui c'è ancora, è ancora qui.

- In che senso?

- Paperino, Duffy Duck, Wilcoyote: tutti tifano per loro. Invece Topolino sta sul cazzo a tutti.

Non lo rimprovero per l'espressione triviale: sono in uno stato di grazia, disposta a perdonargli tutto.

- Be’, sai, nei cartoni animati le cose sono un po’ diverse dalla realtà.

- A te non piacciono i cartoni animati?

- Sì, ma solo quelli classici.

- Effettivamente molte animazioni fatte al computer fanno schifo, ma ce ne sono anche di bellissime.

- I manga?

- No, quelli sono i fumetti. Si chiamano anime. Mia madre ha ancora dei vecchi filmini di Walt Disney di quand'era bambina, lo sai? Non hanno nemmeno il sonoro e bisogna proiettarli con quei trabiccoli rumorosi che si usavano una volta, ma hanno un fascino incredibile. Ce n’è uno dove perfino Topolino mi sta simpatico: Pluto va una mostra di cani, fa un casino assurdo e i giudici li cacciano via, ma alla fine salva una cagnetta da un incendio e gli danno una medaglia al valore.

- Me lo ricordo: hai ragione, è molto carino.

- L’hai visto anche tu?

- Sì, tanti anni fa.

- Ti piace?

- Molto.

- Senti, ma se ti piacciono i cartoni animati, perché non li guardiamo insieme in camera mia?

- Solo se studi.

- È un ricatto, professoressa?

- In piena regola.

- Ci sto. Posso usare le tue gambe come cuscino?

Prima che io gli risponda rotola supino con la testa sulle mie cosce. Mi raggiunge il suo odore di animale giovane accaldato.

- Ti dà fastidio se sto così?

- No, fa' pure.

- La sai fare la torta di mele?

- Io non sono molto brava in cucina, ma la torta di mele la so fare: mia madre è un’ottima cuoca, ho imparato da lei.

- Allora me la fai, per piacere? In fin dei conti sei quasi mia cognata, nessuno ci troverà da ridire.

- Va bene, te la farò. C’è nient’altro che desideri?

- Sì mammina, ma ti incazzeresti se te lo dicessi.

- Lasciami indovinare: vorresti essere in braccio a qualche tua compagna che non sa una parola di greco?

- Acqua.

- Non una tua compagna? Allora un’amica.

- Fuochino.

- Vedi che pian piano ci sto arrivando.

- Che buon profumo hai.

- È un dopobarba da uomo.

- Sul serio?

- Non mi piacciono i profumi da donna, li trovo nauseanti.

- Il sole ti ha fatto spuntare le lentiggini sul naso.

- Lo so, succede sempre.

- Hai la pelle chiara. Sei rossa naturale?

- Sì, ma i miei capelli sono di un rosso un po' diverso; li tingo per sembrare meno... meno carota, ecco.

- Ti stanno bene. E hai gli occhi verdi come i gatti.

- È normale per le persone rosse di capelli.

- Sono belli.

- Tutti questi complimenti per farti perdonare l'analisi lasciata a metà?

Non risponde.

- Stai tremando: hai freddo?

- Sì, un po'.

- Ci saranno trentacinque gradi, prof.

- Eh, ma questo venticello serale è pungente.

All'improvviso si alza, scuote via con le mani la polvere e i fili d’erba che gli sono rimasti appiccicati addosso e mi tende sportivamente la mano:

- Dai, andiamo: s'è fatto tardi, non vorrai far aspettare il tuo futuro marito.

Mi precede attraverso il bosco camminando a passi rapidi, come se avesse fretta di allontanarsi da me. Ad un tratto, senza voltarsi, dice:

- Comunque è stato un omicidio, non un suicidio.

- Come?

- Niente. Un giorno capirai.